Un adattamento moderno del poema epico irlandese Cúirt An Mhéan Oíche / La corte di mezzanotte, scritto da Brian Merriman nel 1780: An Chúirt (The Court) è un cortometraggio molto originale, recitato in gaelico, che partecipa in concorso alla 10a edizione di Irish Film Festa (30 marzo – 2 aprile, Casa del Cinema). . . .
Interviste
Tre domande a… Brian Deane, regista di Blight
Un giovane sacerdote viene inviato su una remota isola al largo della costa irlandese per aiutare la locale comunità di pescatori a difendersi da oscure forze soprannaturali, ma niente è come sembra: Blight è un cortometraggio di genere horror in concorso alla 10a edizione di Irish Film Festa (30 marzo – 2 aprile, Casa del Cinema). . . .
Tre domande a… Jack O’Shea, regista di A Coat Made Dark
Un uomo segue gli ordini di un cane: deve indossare un misterioso soprabito con impossibili tasche. È la misteriosa trama di A Coat Made Dark, uno dei cortometraggi d’animazione in concorso alla 10a edizione di Irish FIlm Festa (dal 30 marzo al 2 aprile alla Casa del Cinema di Roma).
Ce ne parla il giovane regista Jack O’Shea, i cui lavori sono stati selezionati da vari festival internazionali, incluso l’importante festival dell’animazione di Annecy.
Quali tecniche hai usato per l’animazione del corto?
Il corto è realizzato in animazione digitale. Ho sperimentato anche un approccio più tradizionale, utilizzando materiali organici, ma alla fine mi sembrava che la tecnica digitale mi permettesse di catturare con più precisione l’estetica di cui avevo bisogno per il film.
La palette cromatica è minimale e molto forte, come l’hai definita?
Gran parte della storia si basa sui non detti, perciò era importante, anche dal punto di vista visivo, nascondere al pubblico ciò che appare sullo schermo attraverso vaste aree nere. In questo modo i dettagli rimasti visibili acquistano una forza maggiore, e al tempo stesso offrono delle suggestioni riguardo a ciò che si cela nell’oscurità.
What about the voices of your characters – Hugh O’Connor, Declan Conlon and Antonia Campbell Hughes?
Tutti i personaggi sono molto restii a parlare. Avendo dei dialoghi così limitati, le performance vocali degli attori sono cariche di tensione, e molto attente a particolari quasi impercettibili.
Tre domande a… Paddy Cahill, regista di Seán Hillen Merging Views
Mentre crea i suoi bellissimi collage fotografici, l’artista Séan Hillen parla del suo lavoro e di una recente scoperta personale: Seán Hillen, Merging Views è un cortometraggio documentario che vedremo in concorso alla 10a edizione di Irish Film Festa (dal 30 marzo al 2 aprile, Casa del Cinema).
Ce ne parla il regista Paddy Cahill.
Perché hai scelto di realizzare un documentario su Seán Hillen?
Sono un ammiratore del lavoro di Seán Hillen da molto tempo, ma solo l’anno scorso, quando sono stato da lui per comprare una delle sue opere con l’intenzione di regalarla, ho capito di volergli dedicare un film. Così gli ho scritto per chiedergli se sarebbe stato disponibile a prendere parte a un documentario. Anche il passato di Seán è molto interessante, e meriterebbe un documentario a sé, ma per Merging Views sono stato particolarmente affascinato dalla casa/studio in cui crea i suoi splendidi lavori.
Tutto il film è ambientato in una piccola stanza: come hai lavorato sulla composizione delle inquadrature e sul montaggio?
In casa con Seán durante le riprese c’eravamo solo io e il direttore della fotografia Basil Al Rawi. Per me era molto importante avere una troupe ristretta, e comunque in quella stanza non c’era molto spazio! Ho deciso che Seán avrebbe dovuto parlare e rispondere alle domande solo mentre lavorava, per far sì che non sembrasse la classica intervista documentaristica. E poi in questo modo Basil poteva comporre delle inquadrature molto belle posizionandosi proprio alle spalle di Seán.
Quanto sono durate le riprese?
La pianificazione, a fianco del produttore Tal Green, è stata piuttosto lunga, ma le riprese vere e proprie sono durate appena una notte. Volevamo che gli spettatori provassero le nostre stesse sensazioni, come se una sera fossero capitati in questa casa molto particolare, su una qualunque via di Dublino, e si fossero fermati a guardare Seán creare una delle sue opere.
Tre domande a… Graham Cantwell, regista di Lily
L’adolescente Lily affronta le insidie della vita scolastica in compagnia del suo amico Simon, eccentrico ma molto leale. Quando un equivoco con la bella e popolare Violet la costringe a subire un violento attacco, Lily è di fronte a una grande sfida.
Lily è un cortometraggio a tematica LGBT, già premiato al Galway Film Fleadh 2016, che vedremo in concorso alla 10a edizione di Irish Film Festa (30 marzo – 2 aprile, Casa del Cinema).
Ne abbiamo parlato con il regista Graham Cantwell, che è stato nostro ospite già nel 2014 con una bellissima masterclass di recitazione e con il lungometraggio The Callback Queen. La protagonista di quel film, Amy-Joyce Hastings, ha un piccolo ma importante ruolo anche in Lily.
Come hai scelto i giovani attori di Lily?
Abbiamo aperto un casting per giovani attori a Dublino, e la risposta è stata straordinaria. Ci ha dato la possibilità di incontrare alcuni dei migliori giovani interpreti del paese per i ruoli di Lily, Simon, Violet e Emer.
Appena Clara Harte è arrivata per sostenere il provino abbiamo capito subito di aver trovato la nostra Lily: c’è in lei una meravigliosa combinazione di intelligenza e vulnerabilità. Ho scelto invece Leah McNamara per la parte di Violet solo vedendo la sua foto: era perfetta. Speravo che sarebbe stata anche brava, e per fortuna lei e Clara si sono dimostrate fantastiche già durante l’audizione.
Per quanto riguarda Emer, la bulla della storia, Hallie Ridgeway ha fatto suo il personaggio fin dal primo ciak. Il casting per Simon è stato il più difficile. Abbiamo incontrato dozzine di giovani attori bravissimi, ma nessuno possedeva quelle particolari caratteristiche che cercavo per Simon. Dean Quinn è comparso proprio all’ultimo momento e ci ha salvati, riuscendo a cogliere tutte le qualità di Simon: il suo grande cuore, il suo spirito insolente, la sua natura protettiva.
Formato il cast, ci siamo dedicati alle prove, e in particolare abbiamo preparato con molta cura la scena dell’attacco a Lily. Clara e Dean hanno legato subito, ponendo la base per la buona riuscita del film. Sul set c’erano poi interpreti di lunga esperienza come Amy-Joyce Hastings e Paul Ronan, che hanno aiutato i ragazzi a migliorarsi e portare a termine un ottimo lavoro.
La storia contiene molti riferimenti alla vita scolastica e alle abitudini degli adolescenti: gli attori sono stati coinvolti anche nel processo di scrittura?
La sceneggiatura è stata scritta molto prima, però abbiamo lavorato a lungo sui dialoghi durante le prove, e, familiarizzando con i personaggi, gli stessi attori hanno dato il loro contributo facendoli completamente propri.
Ci siamo anche confrontati con associazioni giovanili e abbiamo fatto leggere la sceneggiatura sia a vari membri della comunità LGBT irlandese per avere un riscontro, sia ad alcuni ragazzi per essere sicuri che tutto suonasse autentico. Durante le riprese la sceneggiatura è stata ulteriormente adattata tenendo conto dei suggerimenti che venivano dagli attori.
La musica è molto presente in Lily e sottolinea spesso i momenti più carichi dal punto di vista emotivo: come hai lavorato con il compositore Joseph Conlan?
Conosco Joe da tempo, fin da quando abbiamo collaborato per The Callback Queen, e ormai abbiamo messo a punto un processo di lavoro che funziona piuttosto bene.
Lui vive a Los Angeles, quindi lavoriamo molto da remoto, via Skype e con le email. È difficile spiegare a parole quale effetto si vuole ottenere da un brano musicale, penso sempre a quella citazione di Elvis Costello secondo cui “parlare di musica è come ballare sull’architettura”. Con Joe discuto soprattutto di sensazioni ed emozioni, delle reazioni che vorrei gli spettatori avessero di fronte a certe scene, e Joe suggerisce gli strumenti da usare. Poi inizia a comporre, sovrapponiamo la musica alle sequenze del film e insieme decidiamo gli aggiustamenti da fare. Ha un orecchio straordinario e una grande capacità di comprendere il racconto, la prima versione dei suoi brani si avvicina sempre molto a quello che sarà poi il risultato finale, così le nostre conversazioni raramente toccano gli aspetti tecnici, ma si concentrano piuttosto su dettagli impalpabili, sulle sensazioni. Mi ritengo fortunato di avere Joe come collaboratore e spero di lavorare ancora con lui.
Tre domande a… Tristan Heanue, regista di Today
Un uomo si sveglia nella sua automobile, è disorientato, non ricorda come sia finito lì in mezzo al nulla: Today è uno dei cortometraggi in concorso alla 10a edizione di Irish Film Festa (dal 30 marzo al 2 aprile, Casa del Cinema).
Ne abbiamo parlato con il regista Tristan Heanue, che compare come attore in altri due corti selezionati per la competizione di quest’anno: Gridlock e Blight. In Today dirige invece gli straordinari John Connors e Lalor Roddy.
Le interpretazioni di John Connors e Lalor Roddy sono davvero potenti: come hai lavorato con loro su questi ruoli così impegnativi? E come mai hai scelto di non apparire nel film, pur essendo anche tu un attore?
Con John Connors avevo già discusso a lungo del personaggio, dal momento che lui faceva parte del progetto prima ancora che scrivessi la sceneggiatura: gli avevo proposto la scena iniziale e gli era piaciuta subito, così quando gli ho detto che mi sarei occupato della regia, ma non avrei recitato, mi ha fatto sapere che sarebbe stato felice di avere lui la parte. Quando siamo arrivati sul set John era già preparatissimo.
Con Lalor Roddy invece ho avuto a disposizione meno tempo, ci siamo incontrati solo il giorno prima dell’inizio delle riprese, ma conoscevo bene il suo straordinario talento d’attore ed ero convinto che avrebbe saputo far suo il personaggio ed interpretarlo nel migliore dei modi. Non abbiamo fatto prove, perché volevo conservare un senso di estraneità tra John e Lalor, e infondere così freschezza e spontaneità alle loro scene. Hanno dimostrato di avere un grande rispetto l’uno per l’altro, entrando in connessione a un livello profondo, tanto che a volte mi sembrava di barare perché non avevo praticamente bisogno di dirigerli, ma del resto è ciò che accade quando lavori con grandi attori: li collochi nel giusto ambiente e li lasci recitare.
Non ho mai pensato di essere adatto per interpretare il protagonista, fin dal primo momento ci ho visto John. Avevamo già lavorato insieme per un altro cortometraggio, e avevamo avuto la possibilità di parlare a lungo di salute mentale e delle nostre esperienze. Insomma, doveva essere lui. In questo modo mi sono anche potuto concentrare al massimo sulla regia, ci tenevo molto visto che per me era la prima volta.
Dove è stato girato il film?
A Derryinver, dalle parti di Letterfrack in Connemara, nella contea di Galway. La fattoria che si vede nel film è di mio padre e la strada passa proprio sotto la casa, insomma non abbiamo dovuto spostarci molto per raggiungere le location.
Puoi dirci qualcosa su Eimear Ennis Graham che ha curato la fotografia?
Eimear è stata importantissima, ho scelto di averla con me per questo progetto fin da quando ho deciso che mi sarei occupato della regia. Siamo amici e ammiro molto il suo lavoro, è stato fantastico collaborare con lei. Mi è stata di grande aiuto perché, come regista esordiente, avevo bisogno di una persona a cui poter fare qualunque domanda senza timore.
E vorrei citare anche Paddy Slattery, il produttore: ha creduto da subito nel progetto ed è riuscito a coinvolgere dei professionisti bravissimi. Sono stato fortunato ad averlo al mio fianco, mi ha dato fiducia anche nei momenti in cui tutto mi sembrava impossibile.
Tre domande a… Sinéad O’Loughlin, regista di Homecoming
Un giovane, tornato da poco in Irlanda, è alla faticosa ricerca del suo posto nella vita. L’incontro con una persona amica gli fa sperare che qualcosa stia cambiando: Homecoming è uno dei quindici cortometraggi in concorso alla 10a edizione di Irish Film Festa (30 marzo – 2 aprile alla Casa del Cinema).
Ne abbiamo parlato con la regista Sinéad O’Loughlin.
Homecoming è stato girato nella contea di Wicklow: le tue scelte di regia sono state influenzate dal paesaggio?
Ho deciso fin dalle prime fasi di scrittura che la storia si sarebbe svolta nel Wicklow, perché vengo da lì, è il luogo che conosco meglio. Homecoming è il mio primo lavoro cinematografico, ho una formazione teatrale e scrivo racconti: con queste premesse, in effetti è strano che abbia scritto un cortometraggio tutto ambientato all’aria aperta!
Ho avuto la fortuna di ottenere dei finanziamenti dal Wicklow County Arts Office, che mi ha anche dato la possibilità di lavorare con il direttore della fotografia e montatore Daniel Keane. Dan ha colto subito il senso del mio progetto, l’ho capito da come ne parlava.
Volevamo mostrare la drammatica bellezza dell’ambiente rurale, ma anche, per contrasto, il duro lavoro che la terra richiede ogni giorno.
Un’altra ragione per girare a Wicklow è stata la possibilitò di usare la fattoria di mio padre come location per le riprese. Il paesaggio lì è meraviglioso e siamo stati anche piuttosto fortunati con il tempo atmosferico, che ha risposto bene alle nostre necessità. Il primo giorno, ad esempio, c’era questa nebbiolina fantastica e Dan ne ha approfittato cominciando immediatamente a girare quella che poi sarebbe diventata l’inquadratura iniziale del corto.
I dialoghi sono molto importanti nel film: ci racconti qualcosa del tuo processo di scrittura?
Amo il modo in cui noi irlandesi parliamo, le espressioni che usiamo, il nostro ritmo. Parto sempre dai dialoghi, anche quando scrivo racconti.
Homecoming è nato come testo teatrale composto da un solo atto: si intitolava Wake e l’ho scritto all’università nel 2009. Si trattava sostanzialmente di una conversazione tra Mick e Aoife in seguito a un lutto: Aoife sta per andare al college mentre Mick sta pensando di partire per l’Australia.
Amo molto anche gli adattamenti, così quando si è presentata la possibilità di realizzare un cortometraggio, ho pensato: perché non tornare dagli stessi personaggi, otto anni dopo, e vedere cosa è successo? Il tempo è passato, le loro vite hanno preso strade diverse, ma questo nuovo incontro li fa scoprire ancora molto legati alle proprie radici e al passato. Ero consapevole dell’importanza dei dialoghi, ci ho riflettuto molto. Così tanto che quando finalmente mi sono messa a scrivere, la prima bozza completa è venuta fuori di getto. Non mi era mai capitato prima.
A quella prima stesura è seguito un lungo lavoro di revisione, per togliere tutto il superfluo. La scrittura per i cortometraggi in questo senso è un esercizio utilissimo, Dan poi è stato irremovibile sulla durata del film e gli sono grata per questo. Anche perché, al cinema, bisogna lasciare spazio agli aspetti visivi e alle interpretazioni degli attori non si può essere troppo attaccati alla propria scrittura.
Tu, come autore, scrivi un dialogo in un certo modo, lo dirigi in un certo modo, ma poi gli attori possono introdurvi elementi completamente nuovi, ed è fantastico. Varie battute sono state riscritte direttamente sul set, se al momento di recitarle non suonavano abbastanza credibili. Volevo che tutto suonasse naturale, anche nella forma. E gli attori sono stati bravissimi. C’erano delle battute, in sceneggiatura, che non mi sembravano così importanti, e che invece ora sono le mie preferite proprio per come David Greene e Johanna O’Brien le hanno fatte proprie.
L’emigrazione sembra essere ancora una questione delicata in Irlanda.
Sì, ed è strano perché oggi spostarsi è molto più semplice, le persone vanno e vengono, è più facile mantenersi in contatto grazie a Internet, ma l’assenza di chi è andato via si percepisce ancora molto forte, soprattutto nei piccoli paesi. Io stessa ho un fratello che vive in Australia e una sorella nel Regno Unito. Tra l’altro mio fratello era tornato a casa, per poi partire di nuovo dopo un anno, proprio un paio di settimane prima che iniziassi a girare Homecoming. Confrontarmi con lui è stato fondamentale per la scrittura di Homecoming, anche considerando che lui ha sei anni meno di me e quindi le sue esprienze sono diverse dalle mie. Ho anche preso in prestito i suoi vestiti per David!
Io stesso sono emigrata in Canada per un periodo ma non mi trovavo bene. Sono partita nel 2007 e tornata l’anno successivo, quando le cose in Irlanda iniziavano a non andare bene economicamente: io tornavo e tutti gli altri si preparavano ad andarsene! È frustrante, senti la pressione di dover lasciare il tuo paese, e ascolti le storie di chi ce l’ha fatta, e di come la qualità della vita là sia migliore. Attraverso il film ho voluto esplorare proprio queste senzasioni. Nel caso di Aoife, lei se n’è andata per costruire una nuova vita e scappare dal dolore, ma si porta dentro la preoccupazione per la madre; Mick invece prova una profonda frustrazione, perché è rimasto indietro e se ne rende conto.
Tre domande a… Niamh Heery, regista di Pause
Una donna in stato confusionale arriva su un’isola per affrontare il proprio passato. Mentre riascolta vecchi nastri registrati in famiglia, l’ambiente che la circonda prende nuova vita: il dramma Pause è uno dei cortometraggi in concorso alla 10a edizione di Irish Film Festa (dal 30 marzo al 2 aprile alla Casa del Cinema di Roma).
Ne abbiamo parlato con la regista Niamh Heery.
Il sonore è molto importante in Pause: come hai lavorato su questo aspetto?
Quando Eva arriva sull’isola capiamo subito che per lei si tratta di un ritorno al passato, così ho voluto giocare con la struttura narrativa del film senza però ricorrere ai classici flashback. Un altro aspetto che ho dovuto tenere in considerazione durante la scrittura di Pause è stato il budget, praticamente inesistente: da un punto di vista logistico non potevo proprio permettermi di trattenere dei bambini e un padre sull’isola per tutta la durata delle riprese. Perciò ho dovuto ingegnarmi per trovare una soluzione creativa ed ecco l’idea delle vecchie audiocassette.
Penso che la nostalgia sia un elemento cinematografico molto potente, se usato nel modo giusto, e i suoni sanno agire a livello sensoriale per riportare alla mente dei ricordi. Molti di noi, da bambini si sono divertiti con le audioregistrazioni, quindi ho pensato che fosse una maniera efficace per suggerire quel senso di passato, di distacco temporale che stavo cercando. Abbiamo registrato le tracce audio con due bambini fantastici, cugini tra loro, Aobha Curran e Cian Lynch, mentre Alan Howley, che interpreta il padre, lo conoscevo già grazie a un precedente lavoro. Lui è padre anche nella vita, ed è stato bravissimo nel creare un rapporto paterno con i bambini, fondamentale per marcare il cambio di tono che avvertiamo nelle registrazioni della seconda parte.
Dove è stato girato il cortometraggio?
Su Inishbiggle Island, nella contea di Mayo sulla costa occidentale dell’Irlanda. Ho desiderato girare un film su quell’isola dalla prima volta che ci sono stata. I miei genitori hanno comprato la piccola casa che vediamo nel film diversi anni fa, e a quel tempo Inishbiggle aveva ventisette abitanti, oggi ridotti a meno di venti a causa del progressivo invecchiamento. Nella zona si parla prevalentemente gaelico e il paesaggio mantiene un aspetto grezzo, incontaminato. Le persone che vivono lì sono state molto accoglienti con la troupe e Mícheál, che lavora realmente come traghettatore sull’isola, è stato davvero carino ad accettare di prendere parte al film. Tutto molto reale!
Come hai scelto Janine Hardy per il ruolo di Eva?
Avevo già lavorato con Janine in altre tre occasioni. Ci siamo conosciute grazie a un provino per un video molto delicato che stavo girando sul tema delle violenze domestiche, e successivamente l’ho voluta in Our Unfenced Country, il primo corto che ho realizzato per RTÉ.
Come attrice, Janine ama andare a fondo, discutere a lungo e, se necessario, cambiare il suo approccio nei confronti del personaggio. Per me è fantastico, perché mi permette di individuare i punti da migliorare in sceneggiatura ancora prima di iniziare le riprese. Mi piace lavorare con gli stessi attori più volte, se sono bravi e se ne ho la possibilità. Sul set non è sempre facile trovare il tempo per costruire la fiducia necessaria tra attore e regista, soprattutto se si affrontano argomenti delicati: in questo senso, decidere da subito che sarebbe stata Janine a recitare la parte di Eva mi è stato di grande aiuto.
Tre domande a… Ian Hunt Duffy, regista di Gridlock
Una bambina scompare nel corso di un ingorgo stradale. Il padre, sconvolto, improvvisa una squadra di ricerca di ritrovarla. Tutti i presenti sono possibili sospettati. Gridlock di Ian Hunt Duffy è uno dei cortometraggi in concorso alla decima edizione di Irish Film Festa (30 marzo – 2 aprile, alla Casa del Cinema di Roma).
Ce ne parla il regista, che già l’anno scorso era in gara come produttore di Love is a Sting.
Dove è stato girato il corto? E quanto sono durate le riprese?
Abbiamo girato per cinque giorni nella foresta di Donadea, nella contea di Kildare in Irlanda.
L’azione di Gridlock si svolge in uno spazio molto limitato: come hai lavorato sui movimenti di macchina e poi sul montaggio?
Con il direttore della fotografia Narayan Van Maele ho deciso di usare molto la camera a mano, per trasmettere al film energia e immediatezza. L’obiettivo era suggerire un senso di claustrofobia, anche se i protagonisti si trovano all’aria aperta. Abbiamo cercato di tenere la macchina da presa molto vicino agli attori, proprio per dare il senso di una folla inferocita che si stringe sempre di più.
Gridlock è un film corale, quindi abbiamo privilegiato inquadrature lunghe, cariche di tensione, che mostrassero i vari personaggi coinvolti nell’azione.
Tutti gli attori – Moe Dunford, Peter Coonan, Steve Wall – sono fantastici: è stato difficile sceglierli?
Siamo stati davvero fortunati con il cast. Come dicevo, Gridlock per me doveva essere un film corale, quindi avevo bisogno di un gruppo d’attori bravissimi e che funzionassero bene insieme.
Per quanto riguarda Moe Dunford, avevo già pensato a lui come protagonista dopo aver ammirato la sua meravigliosa performance in Patrick’s Day. L’ho contattato, gli ho spiegato la mia visione del film e abbiamo trovato subito un’intesa. Anche con gli altri attori è andata benissimo, si sono mostrati tutti estremamente disponibili e interessati alla sceneggiatura.
Tre domande a… Cashell Horgan, regista di The Clockmaker’s Dream
Cashell Horgan è il regista di The Clockmaker’s Dream, il cortometraggio fantasy in concorso alla decima edizione di Irish Film Festa (dal 30 marzo al 2 aprile alla Casa del Cinema di Roma).
In un mondo di automi, un fabbricante di orologi cerca di costruire la donna perfetta e darle il posto della moglie che ha perduto, ma è più difficile di quanto potesse immaginare. L’uomo deve trovare una soluzione prima che il tempo a sua disposizione finisca e il proprio mondo si fermi per sempre…
Le sconografie e i costumi di The Clockmaker’s Dream sono molto particolari: avete guardato a dei modelli di riferimento?
Abbiamo fatto lunghe ricerche preliminari: i personaggi ricordano persone reali, persone che potrebbero essere gli abitanti di una piccola città, ma sono anche figure di fantasia, più simili a giocattoli d’epoca.
Abbiamo osservato giocattoli di latta, bambole e costumi dell’800, ma anche maschere tradizionali del Nord Europa e fotografie di costumi di Halloween fatti in casa tra gli anni 20 e 50. L’ambientazione doveva avere un tono classico, per adattarsi alle creazioni del Clockmaker, ma anche un tocco moderno, come se quegli elementi fossero lì da secoli.
Le maschere di cartapesta hanno una qualità antica, da oggetto fatto a mano, e sono state realizzate dalla burattinaia irlandese Emma Fisher in collaborazione con alcuni studenti d’arte di Limerick. Dietro ai costumi c’è invece la stilista Tatsiana Coquerel, anche lei di Limerick: il lavoro di Tatsiana si ispira all’estetica delle bambole, quindi per noi era perfetto. Anche per quanto riguarda le scenografie, abbiamo voluto suggerire un’ambientazione ottocentesca, un mondo magico à la Jules Verne.
Per immaginare la maschera del Clockmaker ho fatto riferimento al personaggio di Man of la Mancha character, e poi, dalla creta, il designer Kamil Krawczak (della Order 66 Creatures and Effects) l’ha resa reale. Tutti i collaboratori hanno rielaborato le mie idee iniziali e i miei suggerimenti attraverso la loro personale espressione artistica.
Dov’è stato girato il cortometraggio?
A Limerick e al Bunratty Folk Park, un parco per turisti che ricalca la struttura di un’antica città irlandese. Gli edifici presenti nel parco sono stati trasportati lì mattone per mattone e poi riassemblati. L’arredamento e gli accessori risalgono al primo 900, quindi adattissimi per il nostro progetto. Ger Wallace e John Mac Donnacha, che si sono occupati dell’allestimento, hanno affrontato un bel po’ di problemi per spostare gli oggetti più antichi da un set all’altro. Procurarci gli orologi è stata la cosa più difficile, soprattutto considerando il budget ridotto.
Il corto ha due protagonisti: il Clockmaker mascherato Joe Mullins recita solo con gli occhi e il corpo, mentre il narratore Jared Harris usa solo la voce. Come li hai scelti per interpretare i rispettivi ruoli?
Per il ruolo del Clockmaker c’era bisogno di un attore che avesse alle spalle una certa esperienza di vita. Ho preso in considerazione vari attori, tutti molto bravi, ma nessuno corrispondeva davvero alla mia visione. Joe Mullins è arrivato per una delle ultime sessioni di prova, a ridosso dell’inizio delle riprese, e mi è bastato vederlo indossare la maschera e recitare una scena per capire che era lui: la sua presenza fisica, l’interpretazione data al personaggio e l’espressività dei suoi occhi mi hanno convinto. Joe ha dato vita al Clockmaker, lo ha fatto completamente suo portando sullo schermo elementi propri della mimica e della recitazione teatrale. In lui ho visto la giusta misura nei movimenti, e il giusto spettro di emozioni negli occhi, che avrebbero reso il Clockmaker un personaggio credibile. Joe indossava sempre la maschera sul set, bevendo attraverso una cannuccia e mangiando salatini tra una ripresa e l’altra. Uno degli attori più pazienti e cortesi che si possano desiderare, un vero professionista.
Ammiro molto Jared Harris come attore, credo che la sua interpretazione del professor Moriarty in Sherlock Holmes – Gioco di ombre sia una vera perla, oltre che la migliore tra tutti gli adattamenti cinematografici di Sherlock Holmes, e si è dimostrato altrettanto versatile e travolgente come voce di Lord Portley nel film d’animazione Boxtrolls. The Clockmaker’s Dream è una fiaba anticonvenzionale, c’era bisogno di una voce che potesse esprimerne le suggestioni da fratelli Grimm ma anche il sottotesto umoristico. In occasione di una proiezione al Richard Harris Film Festival, abbiamo incontrato Jared che curava gli incontri col pubblico, e gli ho chiesto semplicemente se fosse interessato a diventare la voce narrante del mio corto. Per fortuna ha accettato e la settimana successiva, nello studio di registrazione, mi ha mostrato una straordinaria gamma di stili interpretativi e narrativi, e in più mi ha fatto ridere, dando così al film quel qualcosa in più.
Spero di lavorare ancora in futuro con questi due attori straordinari e con tutto il cast che ha preso parte al film. Devo ringraziare l’impegno e la dedizione dei miei collaboratori se sono riuscito a portare a termine delle riprese così complesse.
Tre domande a… Maurice Joyce, regista di Violet
Violet è una ragazzina che odia la propria immagine riflessa nello specchio. La sera del ballo della scuola, stanca di essere maltrattata, l’immagine di Violet decide che ne ha abbastanza. Violet di Maurice Joyce, narrato dalla bellissima voce di Aidan Gillen, è il cortometraggio vincitore di Irish Film Festa 2016 per la categoria animazione.
Ecco la nostra breve intervista a Maurice Joyce. Congratulazioni!
La sinossi di Violet descrive la storia come una «cautionary tale»: puoi dirci qualcosa riguardo al lavoro dello sceneggiatore Mark Hodkinson?
Mark voleva affrontare il tema della mancanza di autostima, mostrando quanto le persone possano essere autodistruttive. È un argomento che riguarda da vicino molti di noi, soprattutto nel periodo dell’adolescenza, che è appunto l’età di Violet. In sostanza la storia ci invita a non diventare i nemici di noi stessi – ci sono già abbastanza bulli, non abbiamo proprio bisogno di maltrattarci da soli! Si tratta di un messaggio decisamente contemporaneo, ma Mark ha voluto raccontarlo come una vecchia fiaba, o una cautionary tale, scrivendo la sceneggiatura come una poesia – l’effetto è quello di un adulto che legge una storia spaventosa a un bambino.
I riflessi hanno un ruolo importante nella storia di Violet, così come le simmetrie e i pattern sono usati sia nel disegno dei personaggi sia nella composizione degli sfondi. Come hai lavorato sull’aspetto visivo del corto?
Sì, i riflessi hanno un ruolo importante, e volevo che fosse evidente in ogni aspetto del film: molti sfondi sono simmetrici, guardati da una prospettiva frontale, e persino la musica usa delle forme speculari, che ci fanno ascoltare il tema di Violet al contrario quando sullo schermo appare il suo riflesso. Poi ci sono alcuni dettagli che potrebbero sfuggire a una prima visione: ad esempio il riflesso di Violet che prende il posto della ragazzina non ha a sua volta un riflesso. Nella sala da ballo, tutti gli altri ragazzi si rifletto sul pavimento lucido, tranne lei.
Perché hai scelto Aidan Gillen come Narratore?
Guardando Game Of Thrones ci siamo detti che la sua era una voce perfetta per Violet – è saggia, e al tempo stesso affilata. Abbiamo avuto anche un po’ di fortuna, perché conosciamo Aidan e siamo amici di suo fratello, quindi fargli avere la sceneggiatura non è stato difficile. A lui è piaciuta ed è stato contento di prendere parte al corto. Non solo, ha anche insistito per farlo gratis (e noi andava benissimo, visto che avevamo un budget piccolissimo!). Alla fine lo abbiamo pagato dandogli tutto cià che voleva durante la registrazione. Insomma, quanto costa avere Aidan Gillen come Narratore del tuo cortometraggio? Due banane e una bottiglia d’acqua.
Tre domande a… Audrey O’Reilly, regista di Wait
Quando un’importante gara di piccioni e una delle rare visite di suo figlio Martin coincidono, Charlie aspetta ansiosamente un buon ritorno a casa: Wait di Audrey O’Reilly è il cortometraggio in live action vincitore dell’edizione 2016 di Irish Film Festa.
Ecco la nostra breve intervista a Audrey O’Reilly. Congratulazioni!
Perché hai scelto di ambientare la storia di Wait nell’ambiente delle gare di piccioni?
Mio fratello e mio padre amavano molto i cani ed erano entrambi appassionati cacciatori, così sono sempre stata interessata al modo in cui gli uomini legano tra di loro attraverso lo sport e gli animali. In seguito, nel periodo in cui studiavo al Ballyfermot College, ho realizzato un documentario scolastico dedicato proprio alle gare di piccioni. Per qualche motivo è un mondo che mi affascina. Penso che i piccioni saranno protagonisti anche di un mio lungometraggio, prima o poi.
Come hai lavorato sul set con gli attori protagonisti Owen Roe e Rory Keenan?
Già solo il fatto di scegliere Owen e Rory è stato come avere metà del lavoro già fatto. Sono naturalmente due attori straordinari, e in più li avevo già visti nei ruoli di padre e figlio (lavorano insieme da quando Rory aveva dodici anni), quindi sapevo che tra di loro si era già creata quella familiarità di cui avevo bisogno per il corto. Poi, sul set, piuttosto che guidarli in modo preciso, ho preferito lasciarli liberi di arrivare ai personaggi a modo loro (peraltro, Owen mi ha fatto notare che per lui questo era il primo ruolo non da cattivo!)
Dove è stato girato il corto?
Gli interni a Bray, nella contea di Wicklow, mentre le scene legate alle gare sono state girate al Sarsfield Pigeon Racing di Ballyfermot, dove avevo già realizzato quel documentario. E diversi attori che vediamo nel corto avevano già preso parte al documentario.