«È un mistero come gli attori siano in grado di trasmettere, semplicemente reagendo con abilità evocativa, ciò che in un romanzo richiede centinaia di pagine»: la scrittrice irlandese Emma Donoghue parla con stupore e ammirazione degli interpreti che hanno portato sullo schermo i personaggi del suo The Wonder, un libro che gioca con la Storia e le storie, con le implicazioni sociali della fede religiosa e delle credenze popolari, e sull’opposizione tra guardare (to watch) e agire (to act).
Il film – il cui titolo italiano riprende quello della traduzione del libro, Il prodigio, pubblicato da Neri Pozza – è disponibile su Netflix dal 16 novembre: nell’Irlanda di metà Ottocento, pochi anni dopo la fine della Grande Carestia, un’infermiera inglese (Florence Pugh) è chiamata a osservare – vegliare, controllare: to watch – una ragazzina (la quasi-esordiente Kíla Lord Cassidy) che apparentemente non mangia da quattro mesi. Un miracolo, un prodigio, come sembrano credere alcuni dei suoi compaesani e la sua stessa famiglia? Una truffa? Un trucco? Architettato da chi, e perché?
Chi guarda, si renderà conto la protagonista Lib, non è un soggetto passivo, ma può avere potere di vita o di morte: è stato così nella Storia con la S maiuscola, quando l’Inghilterra ha lasciato che An t-Ocras Mór, la Grande Fame, uccidesse oltre un milione di irlandesi, e potrebbe essere così anche nella piccola storia della fasting girl Anna O’Donnell. Che fare, allora? To watch or to act?
Attori e spettatori
In un film, lo percepiamo con l’immediatezza sensoriale che colpisce così tanto Emma Donoghue, ad agire (to act, appunto) sono gli attori: è la concretezza del loro corpo che ci emoziona, è la loro voce che ci fa credere al testo, e a volte, molto pragmaticamente, è il loro nome a farci decidere di pagare un biglietto per entrare in sala – o di premere play su una piattaforma di streaming, in questo caso.
La popolarità di Florence Pugh (Midsommar, Piccole donne, Black Widow, Don’t Worry Darling) è un veicolo potente per The Wonder, ne parlavamo già quando il cast era stato appena annunciato e la nostra attenzione era puntata sulla sua componente irlandese. Un comparto Irish dove, a fianco dei più affermati Ciarán Hinds e Elaine Cassidy (madre della giovanissima Kíla nella vita e sullo schermo), spiccava Niamh Algar: un’attrice di punta della nuova generazione (a 30 anni ha già vinto due premi IFTA, per Calm with Horses e la serie televisiva The Virtues), di grande fascino, relegata nel ruolo secondario della cugina degli O’Donnell, la sottomessa e superstiziosa Kitty?
Tutt’altro: Algar è lo strumento a cui il regista, il cileno Sebastián Lelio (Disobedience, Una donna fantastica), affida il compito di tradurre in forma cinematografica la struttura meta-letteraria immaginata da Emma Donoghue. Kitty e Niamh ci guardano negli occhi per ciò che siamo, spettatori, e ci ricordano di fare la nostra parte con la sospensione dell’incredulità. Senza di noi, questa storia non esisterebbe. Siamo noi che Kitty fa entrare in casa di Anna, insieme a Lib, per assistere al prodigio. Come Anna gioca col suo taumatropio (un dettaglio presente già nelle pagine di Donoghue), noi giochiamo col film, e ce lo suggerisce l’etimologia stessa di quel giocattolo pre-cinematografico: thaûma-trópos, movimento e meraviglia.
Quando Byrne, il giornalista scettico interpretato da Tom Burke, dice di Anna «She’s an actress», ha ragione, ma non nel significato che il suo personaggio vorrebbe dare alla parola. Anna è un’attrice non perché recita o finge, ma perché agisce. Così come agisce Kitty, muovendosi con noi dentro la storia e fuori dalla storia. E come agisce Lib, perché «Love requires some action, some intervention, at some point. Not just standing by» («Amare significa agire, prendere una qualunque iniziativa, a un certo punto. Non starsene lì in attesa»).
— Valentina Alfonsi
Immagine in alto: Aidan Monaghan / Netflix